I propri sogni vanno conservati


I propri sogni vanno conservati

Tutti gli esseri umani, al di là di ciò in cui dicono di credere e delle formule con le quali sono soliti ammantarsi, possono essere divisi in due sole, grandi categorie antropologiche: quella di quanti hanno saputo conservare i propri sogni e quella di coloro che li hanno seppelliti.

Questa ripartizione equivale, in sostanza, a quella solo apparentemente più drastica, tra quanti sono realmente “vivi”, con l’anima desta e pronta ad accogliere fervidamente il reale, e quanti sono, in realtà, “morti”: morti spiritualmente, morti dentro; anche se magari, non se ne rendono conto e riempiono il cimitero della loro vita con una quantità di parole e di azioni.

Un proverbio degli aborigeni australiani afferma che colui che perde i suoi sogni, perde sé stesso; e questo perchè la mitologia di quel popolo è tutta pervasa dalla nozione del “tempo del sogno” (dreamtime), percepito come la vera dimensione della realtà, anteriore a quella storica e materiale; più precisamente, il “tempo del sogno” corrisponde all’epoca antecedente alla creazione del mondo, quando le creature sognanti cantavano tutto il creato, per cui il mondo altro non è che la risultante di un tessuto musicale fatto, come direbbe lo “Shakespeare” della “Tempesta”, della stessa sostanza dei sogni.

Vi è una saggezza ancestrale in questa concezione del mondo, antica decine di migliaia di anni; faremmo bene, noi uomini moderni e “civilizzati”, a non sottovalutarla e a non respingerla sdegnosamente, solo perchè “non razionale” e “non scientifica”: infatti esiste una verità che sta al di là e al di sopra della ragione, e per la quale il nostro sapere scientifico non è che la descrizione puramente esteriore delle cose e dei fenomeni.

Che cos’è un uomo senza i suoi sogni? Un vuoto simulacro; un contenitore privo di contenuto; un grumo di ambizioni, paure, desideri, calcoli e astuzie; “un essere-per-la-morte” che è già morto da un pezzo, cosa di cui gli altri si accorgono, ma non lui, aggrappato alle sue illusioni, al suo mezzo sapere, al suo banale sopravvivere quotidiano.

Ma cosa sono i nostri sogni, senza i quali non possiamo dirci realmente vivi? Sono la dimensione dello stupore e dell’entusiasmo; l’intuizione dell’infinito che accompagna la scoperta del mondo da parte del bambino e che poi, col passare degli anni e con il crescere dell’esperienza, tende a contrarsi, ad atrofizzarsi, a scomparire.

Il bambino sogna naturalmente, perchè il mondo intero per lui è una immensa, quotidiana, gioiosa scoperta dell’illimitato e del fantastico; o almeno, così è per il bambino normale, cui non è stato rubato il fiore dell’infanzia e cui gli adulti non hanno imposto sulle spalle un fascio sproporzionato alla sua età, “responsabilizzandolo” in maniera brutale e prematura.

Laddove l’infanzia è lasciata libera di percorrere la propria strada (il che non equivale a dire che i bambini debbano essere eternamente protetti sotto una campana di vetro), il sogno si manifesta come la modalità fondamentale del conoscere e dell’apprendere; tanto è vero che un bambino impara più cose per mezzo di fiabe, recite teatrali, giochi e fantasticherie, nelle quali s’immedesima senza residui, che non per mezzo di qualsiasi forma di apprendimento tipica dell’età adulta. Ad esempio, una bambina che, nel corso di un gioco, stringe in pugno la sua bacchetta magica, non finge di essere una fata, ma si sente ed è una fata, a tutti gli effetti; e lo stesso accade ad un bambino che, nel corso di una recita, interpreta Arlecchino o Balanzone.

Parafrasando un po’ il Vangelo, potremmo dire che chi non sa farsi piccolo come un bambino, non merita di conoscere la verità; perchè la verità non è, come volevano gli illuministi, un dato oggettivo e razionalmente deducibile per tutti allo stesso modo, o almeno non lo è quel grado di verità cui possiamo accedere noi esseri umani; ma è il riconoscimento del mistero dell’essere, mistero cui il bambino è spontaneamente più vicino dell’adulto, reso presuntuoso dal sapere libresco.

Conservare i propri sogni perciò vuol dire saper sognare davanti al mistero dell’essere, mantenere la freschezza e lo stupore di quando eravamo bambini. Quella freschezza, quella capacità di meravigliarsi, di aprirsi con tutto il proprio essere all’invito che promana dalle cose, alla domanda di senso che emerge dalle profondità dell’anima, sono il tratto distintivo di colui che è rimasto giovane dentro, pieno di vita e di entusiasmo, nonostante le sconfitte, le delusioni e le amarezze che fatalmente, prima o poi, arrivano per tutti, ma che non su tutti agiscono allo stesso modo.

Alcuni ne restano sconvolti, piegati, intimamente distrutti; sopravvivono fisicamente, ma è come se le radici della loro anima fossero avvizzite per sempre, similmente a ciò che accade quando una gelata fuori stagione brucia i fiori che già si erano dischiusi al tepore della primavera. Quando diciamo che è importante la capacità di sognare, non intendiamo una forma di evasione dalla realtà, ma una percezione più intensa e più ampia della realtà.

Ogni volta che lasciamo spegnere in noi il sacro fuoco della vita, dell’entusiasmo, dello stupore, della freschezza, noi commettiamo un delitto contro la vita, cioè contro il creato e contro la parte più vera e profonda di noi stessi; ogni volta che ci accodiamo alle mode del conformismo, ogni volta che abdichiamo alla nostra unicità ed eccezionalità per farci pecore nel gregge belante e brucante, noi uccidiamo la vita che è in noi e diventiamo tetri servitori dell’uniformità, della piattezza, della morte.

Ecco perchè il “disincanto” è il più grave pericolo contro il quale dovremmo incessantemente lottare, la più grave minaccia che la civiltà moderna sta portando, contro le radici della nostra anima, cercando di farle seccare ed avvizzire. Il disincanto spegne la sete della poesia, e la poesia si alimenta del desiderio e del bisogno della bellezza; la bellezza, a sua volta, svolge una insostituibile funzione educativa nel percorso della nostra vita. Etica ed estetica sono strettamente correlate.

La scienza e la tecnica, o piuttosto la prospettiva arida e materialistica che attualmente le caratterizza, hanno spogliato il mondo del suo incanto, mentre gli adulti, accecati dai loro spettacolari trionfi, congiurano per derubare il bambino – non solo il bambino che è tale per l’età, ma anche il bambino che è in ciascuno di noi – della sua ricchezza più grande: quel velo di poesia che avvolge le cose e le trasfigura in una alone di bellezza e di mistero.

Senza il senso della bellezza, senza lo stupore davanti al mistero, l’uomo perde la sua umanità, si inaridisce, si pietrifica, si disumanizza: diventa il padrone capriccioso e dispotico degli enti, il dominatore spietato dei suoi simili, il tiranno implacabile di sé stesso. Diventa il costruttore della “Torre di Babele”, l’eterno “Adamo” che pretende di stabilire da solo che cosa sia bene e che cosa sia male. Reso insensibile dalla superbia intellettuale, dal delirio della volontà, imperversa con imperio crudele su tutto; non si accorge nemmeno della crudeltà cui si abbandona, perchè non la riconosce come tale, ma la ammanta con i falsi nomi di “razionalizzazione”, “efficienza produttiva”, “esigenze dell’economia, della politica, della difesa”: suprema ipocrisia, quest’ultima, che chiama “difesa” la scientifica, sistematica determinazione nell’aggredire, sopraffare, dominare l’altro.

L’anima che ha saputo conservare i propri sogni e che si è votata alla bellezza della vita e non ai lugubri rituali della morte, non è aggressiva, non vuol sopraffare e dominare nessuno, non vede il mondo come il campo di battaglia delle sue smisurate ambizioni e l’obiettivo dei suoi insaziabili appetiti, ma come il luogo incantato ove essa è chiamata ad aprirsi, a riconoscersi, a trasfigurarsi, mediante una costante proiezione verso l’assoluto.

Quanti sono tronfi di un falso sapere e di una scienza presuntuosa e arrogante, rideranno di lei (l’anima) e dei suoi sogni, della sua nostalgia d’infinito, ma ciò non ha alcuna importanza. Il valore di ciò che è importante non si misura mai nel contingente, ma si proietta nello splendore dell’eterno. E noi, che lo sappiamo o no, siamo cittadini dell’eterno, non del contingente…

Autore: Francesco Lamendola / Fonte: stampalibera.it (sito offline)