Salute

Curare la cefalea con sostanze estratte dalle piante

Circa il 79% delle piante utilizzate nel passato hanno un'azione anti-infiammatoria e analgesica in grado di contrastare i meccanismi della cefalea

Il 79% delle piante hanno proprietà anti-infiammatorie e analgesiche per curare la cefalea

È quanto emerge da uno studio dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo e dell’Istituto di scienze neurologiche del Cnr sui rimedi vegetali usati nella medicina popolare tra il XIX e il XX secolo. Circa l’80%, alla luce delle attuali conoscenze farmacologiche, presenta componenti in grado di contrastare i meccanismi alla base del mal di testa. Il 40% di queste piante era in uso già da circa 2000 anni. La ricerca è stata pubblicata sul Journal of Ethnopharmacology.(1)

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la cefalea è tra i disturbi del sistema nervoso più diffusi, con conseguenti gravi problemi di salute e disabilità. I ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche - Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (Isafom-Cnr) e Istituto di scienze neurologiche (Isn-Cnr) - si sono interessati all’argomento con uno studio sui rimedi vegetali usati dalla medicina popolare italiana tra il XIX ed il XX secolo.

“Alla luce delle attuali conoscenze farmacologiche, circa il 79% delle piante utilizzate nel passato presenta metaboliti secondari (composti organici che non hanno una funzione diretta sulla crescita e lo sviluppo delle piante) con azione anti-infiammatoria e analgesica e comunque in grado di contrastare i meccanismi ritenuti alla base delle principali forme di cefalee”, spiega Giuseppe Tagarelli dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (Isafom-Cnr). “Componenti organici quali flavonoidi, terpenoidi, fenilpropanoidi sembrano poter bloccare, in vivo, i mediatori chimici coinvolti nell’insorgenza delle cefalee.

Biosensori analizzano la saliva per rilevare una malattia

Sensori biologici da implementare ai denti per rilevare i primi segni di determinate malattie analizzando la saliva o il fluido crevicolare gengivale

Un team di ricerca ha sviluppato sensori biologici che analizzano la saliva e inviano i risultati a una banca dati medica

Scienziati della Scuola di Medicina dell'Università di Washington stanno lavorando con l'obiettivo di sviluppare una tecnologia da implementare ai denti che potrebbe essere utilizzata un giorno per rilevare i primi segni di determinate malattie in pazienti ad alto rischio analizzando la loro saliva o il fluido crevicolare gengivale.

“I biosensori basati sull'analisi della saliva hanno suscitato molto interesse a causa del loro potenziale per ampie applicazioni in medicina”, spiega la dottoressa Erica Lynn Scheller,(1) che ha studiato odontoiatria e ora è assistente alla cattedra di medicina e di biologia cellulare e fisiologia nella Scuola di Medicina. “Stiamo lavorando per sviluppare un sensore biologico che misuri specifici peptidi attivi nella malattia parodontale e che verrebbe utilizzato in combinazione con un dispositivo wireless per recuperare tali dati.”

“Assomiglia a un dente elettronico”, ha detto il dottor Shantanu Chakrabartty,(2) professore di ingegneria elettrica e dei sistemi presso la School of Engineering & Applied Science e partner del progetto, attualmente finanziato da una sovvenzione di 1,5 milioni di dollari del National Institutes of Health.

Ogni anno ingeriamo circa 32 mila microplastiche

32 mila microscopici pezzetti di plastica ( microplastiche ) finiscono nel nostro corpo. Sono tutti pezzi dei nostri rifiuti finiti in mare o nell’aria

Secondo una ricerca pubblicata su "Enviromental – science & technology" ogni anno ingeriamo circa 32.000 microplastiche. Ecco come

Il mondo ci si rivolterà contro, pensare di violare i limiti di utilizzo di un materiale come la plastica pensando di allontanarlo dalla nostra vita per sempre una volta gettato nei rifiuti è pura follia. Ed oggi la scienza lo dimostra. Secondo una ricerca pubblicata su Enviromental – science & technology –(1) ogni anno ingeriamo circa 32.000 microplastiche. Pro capite. Sì, esatto: 32 mila microscopici pezzetti di plastica finiscono nel nostro corpo, e gli unici che possiamo incolpare siamo noi, sono tutti minuscoli pezzi dei nostri rifiuti finiti in mare o nell’aria e che noi poi riportiamo a casa bevendo, mangiando o anche solo respirando.

Un articolo di Quartz,(2) per esempio, ci spiega come circa 2000 microplastiche l’anno finiscano nel nostro organismo tramite il normalissimo sale da cucina. Un capitolo della suddetta ricerca infatti è dedicato ad uno studio fatto su 39 marche diverse di sale proveniente da 21 paesi diversi del mondo. Il risultato è sconvolgente, su 39 marche solo tre sono risultate prive di microplastiche, per l’esattezza un raffinato sale marino proveniente da Taiwan, un raffinato sale roccioso cinese e un sale marino non raffinato in Francia.

Il resto, un disastro. Sali marini, sali di roccia, sali di lago, tutti pieni di plastica. Ma come ci finisce la plastica nel nostro sale da cucina?

Semplice. Il sale, chiaramente quello marino e di lago, non è altro che ciò che resta dall’evaporazione dell’acqua. Viene poi raccolto, impacchettato e venduto. Ed è l’acqua in questione a riportare in casa nostra i residui di quella plastica con la quale ogni giorno noi avveleniamo mari, fiumi e laghi del nostro pianeta.

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